
Mons. Francesco Moraglia (da http://www.lanazione.it)
«Per rinnovare la pastorale giovanile – in particolare degli adolescenti – partiamo dalla costituzione di piccole comunità tradizionali e apostoliche, che testimoniano Cristo risorto nella ferialità quotidiana. Così sarà possibile l’incontro personale con Gesù. La fede cristiana non è un discorso, ma un cammino di comunione con Lui».
E’ questo l’invito rivolto dal vescovo Francesco Moraglia ai numerosi educatori presenti al campo di Cassego, punto di partenza di una nuova stagione per la formazione giovanile.
«Una più intensa vita comunitaria è la risposta che possiamo dare all’esistenza troppo frammentata dei nostri adolescenti. Ad essi il mondo propone un modo “disincantato” e “disimpegnato” di rapportarsi alla realtà, alle persone, agli impegni, alle scelte: è l’epoca del pensiero debole, dell’amore breve».
Servono maestri che «siano testimoni “veri” e “sinceri”» e, partendo dal linguaggio e dalle attese degli adolescenti, sappiano condurli ad una “seconda laboriosa nascita”».
L’adolescente è «un soggetto proteso verso il futuro, ma insicuro, inquieto, fragile. Finisce per “essere del primo che se lo prende”. Il primo da cui si ritenga capito e valorizzato diventa, ai suoi occhi, riferimento sicuro».
Per questo, bisogna «non lasciar solo l’adolescente, ma fargli dono del proprio tempo e aiutarlo a ricostruire riferimenti “culturali e spirituali” veri e sensati». Sono i valori appresi da bambino e che ora «devono tornargli a parlare con un linguaggio nuovo».
E «chi meglio di un coetaneo – o quasi -, può parlare a un adolescente di Dio, dell’uomo, del mondo, della vita affettiva, della libertà, della coscienza, del valore e dell’uso del denaro e dei beni?».
La sintesi educativa «non può essere programmata a tavolino, tanto meno, imposta. Richiede tempo, esperienza, sacrifici, dovendosi misurare con attese che, non sempre, né completamente o subito, si realizzeranno».
Per questo serve «il realismo dell’educatore: avere dei sogni non vuol dire coltivare illusioni», specie tenendo conto la difficoltà di avere a che fare con «l’età dell’impazienza», per cui è necessario aiutare l’adolescente quasi «afferrandolo per mano».
«Ogni uomo, è presente a Dio in modo unico e irrepetibile, con la sua storia concreta, le sue povertà e ricchezze. La chiamata di Gesù è personale, ma la risposta – ne è monito l’episodio del giovane ricco – non è scontata: è il risultato della Sua grazia (dono, misericordia) e della libera decisione dell’uomo (il rischio della scelta)».
Anche il grande Paolo, dopo l’accecamento sulla via di Damasco, fu affidato alle cure del discepolo Anania: «Abbiamo bisogno di essere guidati. Quando siamo in questione noi stessi, non basta la propria intelligenza né esperienza. Nessuno è buon giudice in causa propria».
Il contesto culturale estremamente mutevole e caratterizzato da un eccesso di informazione, che finisce per «distorcere o addirittura vanificare la stessa comunicazione», rende gli adolescenti ancora più fragili.
«E’ necessario trovare nuovi equilibri, in cui, a valori e conoscenze del passato, si uniscano elementi nuovi». Questo richiede di «vivere, senza timore – anche di fronte alla solitudine – i valori in cui si crede».
«I giovani – così li abbiamo formati – sono, forse, disposti “a fare”», molto meno a «fermarsi, riflettere e confrontarsi con la ricerca della verità e dei valori».
«L’eccessivo movimento, le troppi voci, il volume troppo alto, alla fine, distolgono dalla verità, una conquista faticosa che richiede tempo, dedizione e anche saper prendere le distanze da un’attività frenetica.
Ogni cosa, oltre ad essere conosciuta, richiede di esser assimilata. Ogni generazione ha bisogno di “far propri” i valori, le conoscenze e le tradizioni delle generazioni precedenti. Non dobbiamo pensare d’imporre niente; dobbiamo spiegare e aiutare a capire, dando nulla per scontato.
Quante volte si è “bruciato” un patrimonio ricco e ancora valido per incapacità di presentalo nel modo dovuto… Accanto alla volontà di spiegare, serve quella di coinvolgere l’altro, di farsene carico, rispettando i tempi di chi è entrato in quel periodo della vita in cui ci si interroga su tutto».
Bisogna saper tener conto di «“tutta l’umanità” dell’adolescente, a patire dalla sua storia personale, dalla sua situazione esistenziale che si colloca in circostanze ben precise e concrete (amici, genitori, scuola, etc.)».
E’ necessario anche “sapersi accettare”, secondo una “saggezza del vivere” che il grande umanista e politico del ‘500 Tommaso Moro sintetizzava in una nota preghiera: “… Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare e la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare. Soprattutto, che possa avere l’intelligenza di saperle distinguere”.
«Accettarsi e accettare non è sinonimo di rinuncia, o sconfitta, ma di vera personalità e libertà di chi non ha bisogno di copiare stereotipi o mode comuni e diffusi». Bisogna «“sapersi accettare” inscrivendo se stessi in un progetto vocazionale che deve prender forma ogni giorno. E che ci è dato. Quindi, è da scoprire e far proprio attraverso scelte libere e la fantasia, i talenti, il coraggio, la propria dedizione personale».
Infine, «dobbiamo essere consapevoli che Gesù Cristo – l’uomo perfettamente riuscito – ha da dire qualcosa di vero e significativo a tutti, sempre, non solo quando si è bambini (prima comunione e cresima) o anziani (frequenza alle funzioni liturgiche)».
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